"Torneremo a Gaza" - Intervista a Safwat Kahlout dell'Osservatore Romano
Condividiamo l'intervista realizzata dal giornalista Roberto Cetera per l'"Osservatore Romano" di venerdì 29 marzo 2023 (CLICCA QUI PER VISUALIZZARE L'ARTICOLO ORIGINALE):
Safwat Kahlout, 51 anni, corrispondente da Gaza della televisione Al Jazeera è da lunedì scorso in Italia. È uscito da Gaza insieme alla moglie, i sette figli, e l’anziana suocera. Parla un buon italiano, memore degli anni in cui ha studiato in Italia. Un’esperienza lontana nel tempo, ma che gli è tornata utile per riuscire ad ottenere un permesso di uscita, atteso per oltre mesi e ottenuto anche grazie all’interessamento dei colleghi corrispondenti dei media occidentali in Israele e Palestina. Ora sono tutti e dieci in una piccola casa messa a disposizione del sindaco di Polino, un paesino della Val Nerina, Remigio Venanzi, attraverso la Fondazione “Aiutiamoli a vivere”.
Safwat com’era la vostra vita a Gaza?
Ti sembrerà strano che ti dica che non era tutto sommato disperante, almeno fino al 7 ottobre. Certo non avevamo libertà di movimento oltre i nostri confini e vivevamo sempre il clima di guerra, il costante pericolo dei bombardamenti, ma c’erano anche due aspetti importanti che spesso non venivano rappresentati. Il primo è che Gaza è, era, un posto molto bello. Senza la guerra veramente sarebbe potuta essere una perla del Mediterraneo e attrarre molto turismo. Il secondo è che la gente di Gaza è molto attiva, molto operosa, ricca di iniziative, e di giovani che hanno voglia di fare, di crescere. Lo testimonia il fatto che dopo ogni episodio di guerra, dopo ogni bombardamento si è sempre ricostruito, ricominciato da capo, senza lasciarsi prendere dalla rassegnazione. Mi rendo conto che io, come giornalista, ero certo un privilegiato, ma posso assicurarti che, al netto della guerra e dell’occupazione, la vita a Gaza non era poi pessima. Sicuramente non peggiore di alcune zone della Cisgiordania.
Poi è arrivato il 7 ottobre...
Noi a Gaza siamo talmente abituati alla guerra che siamo capaci di misurarne l’intensità già dalle prime esplosioni. Ho capito subito che questa volta le cose erano diverse, che eravamo davanti ad una roba molto seria e grossa che avrebbe cambiato il destino di Gaza e anche di ciascuno di noi. Ho chiamato subito la mia squadra, gli altri giornalisti, i miei tecnici e cameraman e abbiamo cercato di cominciare subito a raccontare la verità della guerra. Un impegno che è diventato ancora più gravoso qualche giorno dopo, quando si è dispiegata la risposta militare di Israele. Per tutti questi mesi siamo stati gli unici ad operare da dentro Gaza, l’unica fonte d’informazione, gli unici a inviare immagini della guerra. Una particolarità di questa guerra — penso per esempio al raffronto con l’ Ucraina — è che ai giornalisti è impedito di accedere al teatro di guerra. Per questo il nostro lavoro è stato particolarmente prezioso.
Immagino anche un grande sacrificio dal punto di vista umano.
Esatto. Infatti ne abbiamo pagato anche un tributo pesante in termini di vite umane, di giornalisti ed operatori rimasti vittime della guerra. Ma non potevamo farne a meno perché c’era qualcosa di più del nostro lavoro: c’era la consapevolezza che dovevamo rappresentare l’orrore di questa guerra a tutto il mondo, dovevamo mostrare fuori dei nostri confini l’assurdità della “over-reaction” israeliana che ha prodotto finora circa 31.000 morti. Il mio particolare sacrificio umano è consistito nel continuare il mio lavoro pensando sempre al contempo all’incolumità dei miei figli. Lavoravo per strada con le riprese e poi i montaggi e allo stesso tempo telefonavo decine di volte al giorno a mia moglie e ai miei ragazzi per sincerarmi che fossero salvi. Ogni volta che accorrevo nei pressi di una casa bombardata e vedevo bambini sepolti sotto le macerie, mi venivano i brividi pensando che magari in quello stesso momento poteva darsi la stessa cosa ai miei ragazzi. E telefonavo. Telefonavo.
E pensi che siate riusciti a rappresentare la realtà della guerra a Gaza?
Nei primi mesi di guerra ha prevalso la narrazione israeliana della guerra. E di questo abbiamo sofferto molto. Ora voglio pensare che se tanti Paesi stanno sempre più prendendo le distanze dalle scelte scellerate di Netanyahu, se addirittura da parte americana si è incrinata la storica alleanza con Israele, forse è un po’ anche merito della nostra capacità di riequilibrare la narrazione della guerra, raccontando e mostrando l’orrore che i palestinesi di Gaza stanno vivendo da ormai quasi sei mesi.
Quale Gaza hai lasciato?
Il nulla. Gaza praticamente non c’è più. L’80% delle case è distrutto. Ricominciare sarà duro stavolta. Pensa che la gente ha difficoltà anche a muoversi perché non c’è più una toponomastica: senza le case a segnare le strade e gli incroci, si perde l’orientamento. Tanta gente vive sulla costa dentro le tende.
Poi hai deciso di mollare, di provare ad uscire.
Se fossi stato solo sarei rimasto. Ma prima che giornalista sono un padre. E avevo il dovere di mettere in salvo i miei figli, la mia famiglia. Quindi abbiamo deciso di partire. È stata una decisione difficile, drammatica. Perché, per quanto mi convinca che sia una scelta temporanea, non so quando e come potremo tornare a casa. Noi vivevamo a Gaza City, poi con l’intensificarsi dei bombardamenti ci siamo spostati in un’altra casa, più a sud lungo la costa. Quando anche lì la situazione si è fatta difficile abbiamo deciso di provare a partire. Non è stato facile. Abbiamo atteso a lungo prima di riuscirci. Passare il valico di Rafah e volgere lo sguardo per l’ultima volta alla nostra terra è stato drammatico. Abbiamo lasciato tutto lì. Quando torneremo dovremo ricominciare tutto da capo. Ognuno di noi ha potuto portare solo due valigie con sé. I miei ragazzi da quando siamo arrivati in Italia non parlano, sono scioccati, ma la più colpita è mia suocera che ha 81 anni. Quando eravamo al valico tra le lacrime ha detto «Non rivedrò Gaza»; noi cerchiamo di contraddirla, ma per lei è veramente drammatico trovarsi fuori della sua casa, del suo Paese. Torneremo. Torneremo. Gliel’ho giurato. A lei e ai miei figli.
di ROBERTO CETERA